Il silenzio è uno degli aspetti più necessari alla vita umana, ma anche uno dei più difficili da praticare. Ci sono molti modi di fare silenzio, ma non tutti sono utili, necessari e costruttivi.

Sto studiando la lingua araba e, per quel poco che so, in questa lingua così ricca e bella, ci sono almeno due parole che indicano il silenzio. La prima (sukut) indica l’assenza di rumori, di parole, di suoni, che possono dipendere da noi, o da terzi; l’altra (samt) comprende pure il silenzio interno all’uomo, quello di chi si concentra profondamente e non consente ai propri pensieri ed alle proprie emozioni di fare confusione, di assordare dal di dentro. È il silenzio della meditazione e della preghiera che coinvolge l’esterno e l’interno e che invita a concentrarsi nella zona più intima di sé stessi per mettersi in ascolto.

Mi è capitato molte volte di fare silenzio, ma non sempre ho potuto raggiungere quella profondità che fa piazza pulita di ogni rumore, di ogni conflitto e di ogni pensiero chiassoso. Come per il cammino spirituale e di preghiera, ritengo che ci sia un percorso anche nella capacità di silenzio.

Ricordo i primi esercizi spirituali nei quali il silenzio portava con sé due connotati molto chiari: il fascino e la paura. Il fascino perché si percepisce nel silenzio il senso del mistero, l’affacciarsi di una presenza sublime ed altra che, se ci si mette in un autentico ascolto, si può udire, si può gustare. È la sensazione che si prova quando si entra in qualche monastero e ci si immerge nel suo profondo silenzio e si ha come una fitta al cuore che risveglia una nostalgia profonda di compagnia, di pace, di presenza.

Se si ha l’occasione di sostare un po’ di tempo in silenzio però questa sensazione lascia progressivamente, anche se non definitivamente, lo spazio al senso di vertigine, quasi di paura che si prova quando ci si accorge di essere completamente soli, senza quelle tante forme di rumore e di stordimento che ci consentono di evitare un incontro tanto fondamentale quanto critico: l’incontro con sé stessi. È come dopo una tempesta marina: le acque rimangono torbide e necessitano di molto tempo perché tutte le particelle di sabbia e dei tanti elementi di sporco si depositino di nuovo sul fondo e l’acqua torni ad essere chiara.

Il primo livello dunque del cammino verso il silenzio è questo: trovare il coraggio di scendere in quel luogo interno a sé stessi, nel quale abita la nostra verità e la nostalgia di una presenza, quella di Dio.

Solitudine e ascolto diventano le categorie fondamentali entro le quali si può comprendere il silenzio. Ma come è possibile parlare di solitudine in un mondo così caotico e così densamente abitato? Se è necessario far tacere le molteplici voci esteriori ed interiori che costantemente ci assillano, come è possibile mettersi in ascolto?

Quante persone nel mondo, anche nel nostro, soffrono di solitudine. In ogni fascia di età ci sono ragazzi e ragazze, giovani, uomini e donne, che sono affette da questo senso di smarrimento, di distanza incolmabile dagli altri, anche quando il numero delle relazioni appare molto elevato. Penso che questa sensazione ciascuno, almeno in parte e almeno alcune volte, l’abbia provata. Anche se si hanno persone accanto, anche se queste rappresentano una parte importante della vita, non riescono a scrollare di dosso questa solitudine.

L’intimo dell’uomo infatti è qualche cosa che sfugge, che non può essere riempito da surrogati che producono soltanto frustrazione e insoddisfazione. Al centro della persona umana infatti sta un luogo del quale soltanto Dio è l’ospite, soltanto lui è il vero inquilino. Quando si avverte allora questo senso di angosciante solitudine può essere quello il momento nel quale provare a fare la scoperta che la nostalgia di una compagnia e di una presenza trova risposta soltanto in lui. Un salmo della Bibbia dice: “Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia salvezza. […] Solo in lui la mia speranza” (Sal 62,2.6). Non troviamo pace finché quel luogo rimane disabitato o riempito di presenze inutili o che non hanno diritto di cittadinanza in quella stanza. La solitudine che si prova, allora può diventare punto di forza per aprire orizzonti nuovi e inaspettati.

Ma è ovvio che questo è soltanto l’inizio e, da una solitudine ed un silenzio subito, è necessario andare ad un silenzio scelto. Questo è il passaggio che corrisponde a chi si pone un’autentica domanda di senso per la sua propria vita: quale direzione voglio dare al mio esistere? Tale direzione la posso soltanto subire o posso anche contribuire a camminare verso una meta?

Negli spazi e nei luoghi di silenzio e di solitudine che scegliamo, anche piccoli e brevi, possiamo metterci in ascolto, senza paura, perché sappiamo che al di là di quel primo impatto con noi stessi, ci sta la presenza silenziosa ed eloquente di un Dio-amore che anzitutto abita il nostro intimo. Lì possiamo incontrarlo e decifrare nella pace il nostro cammino vitale. Essere capaci di stare in silenzio e di mettersi in ascolto diventa allora questione di vita o di morte, perché ogni volta che ci allontaniamo dal significato della vita, costruiamo un muro tra noi e la nostra felicità e anche se andiamo verso il rumore e la distrazione che gli altri contribuiscono a creare, in realtà ci allontaniamo anche da loro e non poniamo le basi per rapporti di amicizia e di amore autentici.

“Sta’ in silenzio davanti a Dio e spera in lui…” (Sal 37,7)Queste parole possono dunque aprire un cammino di speranza che il tempo dell’estate può assecondare.

fratel Marco