In questi ultimi mesi, mentre mi avvio verso il diaconato, ho partecipato agli incontri del clero diocesano. Il tema, in sintonia con l’anno giubilare, era la Riconciliazione presentata da diverse prospettive ma, al meno nell’intenzione, tenendo come filo rosso il fatto che il presbitero è allo stesso tempo confessore e penitente. Dopo ogni relazione vi era uno spazio per la condivisione e qui ho costatato con un po’ di rammarico che si finiva sempre sulla stessa convinzione: «La gente non si confessa più», e il motivo è che «si è perso il senso del peccato». Non c’è da dire che questa osservazione era diretta al «popolo di Dio», alla gente, e non certo al clero.

In questo contesto mi sorgeva sempre la stessa domanda: forse che i reverendi presbiteri vogliono di nuovo inculcare alla gente il «senso del peccato»? In altre parole, si vorrebbe tornare alle minacce del fuoco eterno? Uno dei miei professori aveva definito questo atteggiamento con il termine di «amartiocentrismo», vale a dire «mettere al centro il peccato»: Cristo ci ha redento innanzi tutto per cancellare il peccato prima che per amore. È questa una convinzione/atteggiamento che ha prevalso nella teologia e nella prassi, o pastorale se si preferisce, in un determinato periodo storico della Chiesa ma i cui frutti forse non sono stati così belli.

jonnyA queste domande cercavo una risposta, qualcosa che desse speranza a me, ma anche a tutti, confessori e penitenti. Sono andato quindi un po’ indietro negli anni e ho ripercorso il tempo dell’innamoramento, perché sono convito che la riconciliazione è una questione di amore, e ho riscoperto che quando uno ama ha anche timore di offendere chi si ama e se per sventura, volontariamente o involontariamente, si fa qualcosa che scalfisce anche minimamente la sensibilità di chi si ama si cerca subito di riparare l’offesa e non si bada ai mezzi, ciò che importa è ristabilire la relazione il prima possibile. Penso che questa dinamica si possa applicare anche al sacramento della riconciliazione. Allora più che predicare il «senso del peccato» bisognerebbe predicare il «senso dell’amore», appunto perché solo chi ama veramente è anche capace di pentimento.

In realtà non ho scoperto niente di nuovo, le cose che ho rimuginato le ho ritrovate poi leggendo un classico della spiritualità cristiana, la Pratica di amare Gesù Cristo di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Vale la pena riportare il testo che si trova al n.1 del primo capitolo e quindi è «il programma» di tutta l’opera. Ecco cosa dice sant’Alfonso: «Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore. Chi ama me, disse Gesù medesimo, sarà amato dall’eterno mio Padre: Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis (Gv 16,27). «Alcuni – dice S. Francesco di Sales – mettono la perfezione nell’austerità della vita, altri nell’orazione, altri nella frequenza de’ sagramenti, altri nelle limosine; ma s’ingannano: la perfezione sta nell’amar Dio di tutto cuore». Icona.Maria-CarlaSan Paolo dice: Super omnia… caritatem habete, quod est vinculum perfectionis (Col 3,14). La carità è quella che unisce e conserva tutte le virtù che rendono l’uomo perfetto. Quindi diceva S. Agostino: Ama, et fac quod vis: ama Dio e fa quel che vuoi; perché ad un’anima che ama Dio, lo stesso amore insegna a non fare mai cosa che gli dispiaccia, ed a far tutto ciò che gli gradisce». E se qualcuno non lo sa, ricordo che sant’Alfonso è uno dei più grandi «teologi moralisti» del cristianesimo.

Come evidenzia sant’Alfonso è lo stesso Gesù a porre al centro della sua predicazione l’amore, l’accoglienza gratuita delle persone con le proprie fragilità. Le citazioni scritturistiche non mancano. Si potrebbe obiettare che Gesù però non ha mancato di denunciare il male, di invitare alla conversione. Non posso dire che non sia vero ma nessuno può dire che questo era il centro dell’annuncio. Anzi, l’invito a non peccare più Gesù lo fa dopo aver perdonato, basti pensare al racconto dell’adultera nel vangelo di Giovanni. È il senso dell’amore, dell’essere amati che fa nascere il desiderio di «ritornare», di «cambiare vita e pensiero», insomma di convertirsi e non il senso del peccato che rischia invece di chiudere la persona nella sua fragilità e di chiuderle la speranza della guarigione.

fratel Jonathan jc

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