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Papa Giovanni XXIII appena elevato al soglio di Pietro si accorse che nella basilica vaticana a san Giuseppe, invocato ed eletto da sempre protettore della Chiesa universale, non vi era un altare o un monumento a lui dedicato.

doc20140317213212_001Quindi in una lettera apostolica datata 19 marzo 1961 espresse questa suo rincrescimento mentre affidava a san Giuseppe il buon esito del Concilio Vaticano II promettendo al Patriarca di Nazaret la dedicazione di un altare nella Basilica di san Pietro. Cosa che avvenne puntualmente il 19 marzo 1963 quando il santo papa benedisse la pala di Achille Funi posta sull’altare del transetto meridionale della basilica vaticana.

Per l’occasione fu riproposta una pagina di don Giuseppe De Luca (1898-1962) scritta nel 1952 per Parrocchia/3. Mi piace proporla per voi amici e per noi, gustando, come sempre gli scritti di questo grande prete, editore, intellettuale cattolico,  amico dei così detti “grandi”, ma che avvicinò sempre tutti con il suo cuore da bambino. Per questo maturò un rapporto filiale con Giovanni XXIII che corse al suo capezzale per avviarlo in Paradiso ed era – notiamo gli appuntamenti della Provvidenza! – il 19 marzo 1962, solennità di san Giuseppe.

Se stendo queste note, è per dirvi quanto ci sia cara la figura di Giuseppe di Nazaret che ha accompagnato passo per passo la nostra fraternità e le sue memorie liturgiche  sono veramente feste di famiglia.

A Sassovivo, prima dell’entrata in cripta, abbiamo un’artistica statua lignea di autore moderno di san Giuseppe che ci è molto cara anche se ci piace pensarlo piuttosto con uno dei volti  dei nostri amici  o conoscenti della Nazaret  di oggi o come quei volti che il nostro fratel Marco ha di recente fotografato a Nablus.

 fratel Gian Carlo jc

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Destino veramente singolare di questo santo e grande santo: gli toccò quel che di peggio può dare la terra, quel che di meglio può dare il cielo. Non onore né gloria, non danaro né agiatezza, non potenza né considerazione, non amore terreno né piaceri di nessuna sorte, non un nome celebre, non un mestiere onorato, non una ragione qualsiasi per sentirsi ed essere ritenuto qualcuno, nulla di nulla di ciò che il mondo pregia. Quando vollero canzonare Gesù, non dissero soltanto che era un paesano, e un paesano di Nazaret, dissero che era il figlio del fabbro.

IMG_5701-001Ed ebbe, invece, da Dio, quel che Iddio non avrebbe affidato mai a nessuno del mondo, né al più potente, né al più ricco, né al più famoso, né al più appassionato, né, in una parola, al più grande degli uomini. Non a Catone, non a Virgilio, non a Cesare, ma a lui Dio affidò il suo Figlio unigenito e quella cosa straordinariamente delicata che era la madre del suo Figlio. A nessuno degli uomini è mai toccata né potrà mai toccare tanta altezza divina e tanta umana umiltà. Di lui a gran ragione possiamo ripetere quel che Dante disse di Maria: «umile e alto più che creatura».

Non si può dire che a san Giuseppe si voglia un gran bene. Gli si imbastisce una bella festa, si mangiano dei «bignè» deliziosi, si fanno di amene grullerie. Potrebbe ragionevolmente dirsi che si fa festa più col pretesto di san Giuseppe che non a san Giuseppe. Guai, per un esempio, a pensare che è il patrono della buona morte; sarebbe di cattivo augurio. Eppure, dobbiamo morire tutti, e la morte buona non è la cosa più facile di questo mondo. Nessuno pure penserebbe mai che san Giuseppe è il patrono della Chiesa universale e dunque, almeno nella ricorrenza della sua festa, bisognerebbe ricordargli in modo particolare le sorti presenti e future della Chiesa di Dio sopra la faccia della terra, che non sembra siano sorti molto allegre e da non pensarci sopra.

Quanti sono i cristiani, che il giorno di san Giuseppe raccomandano al Santo, non dico la Chiesa universale, ma quel tanto di Chiesa che è nel loro paese, col suo campanile e il suo cimitero, con il suo parroco e con i suoi poveri e i suoi malati, con i suoi vecchi e con i suoi ragazzi, con i suoi vivi e con i suoi morti?

Quando si volesse un po’ bene a san Giuseppe, non ci farebbero tanta paura la povertà e la morte. Lavoreremmo al nostro lavoro senza tante ansie di luoghi e di gloria, di promozioni e di fasti. Un pezzo di pane ci sembrerebbe un dono caduto dal cielo e un bicchier d’acqua ci sembrerebbe la vena della felicità. E quando venisse la sera in cui il Padre ci richiama dal campo per rimeritarci della nostra giornata, piegheremmo il capo come fa l’uccello nella foresta: tra l’indifferenza del mondo universo e fugace, ma al cospetto vigile di Dio. Come san Giuseppe, eccetto Maria santissima, nessuno è vissuto meglio, nessuno è morto meglio di lui.