La Chiesa di Foligno ha celebrato, venerdì 17 settembre scorso, la sua Assemblea diocesana, sul tema: La parola di Dio traccia la rotta della Chiesa nella Storia.

Splendido contenitore dell’evento, l’Auditorium San Domenico, che la lungimiranza e l’impegno dell’architetto Franco Antonelli vollero centro privilegiato della cultura, dell’arte e della socialità cittadine.

La scelta è sembrata particolarmente azzeccata non solo per la capienza del locale di fronte ad una partecipazione affollatissima, ma anche per la strategia che deve aver ispirato la scelta: una specie di campo neutro, più positivamente una casa comune, dove nessun movimento, associazione, parrocchia o confraternita potesse sentirsi privilegiata o fuori posto. Dove non ci fosse la tentazione già rilevata da Giovanni Zampa su La Gazzetta del 19 settembre: «Alcuni ultrà della Chiesa cantano che la vera, non certo l’unica, forma di evangelizzazione e vita comunitaria è quella dei movimenti, associazioni o cammini» perché «solo in questo habitat elettivo si matura un senso di appartenenza e si percorrono le significative tappe mistagogiche del battesimo» e dove «la Diocesi, la Parrocchia non sono più la famiglia dei credenti, la casa della comunità, ma il condominio dove il Vescovo, o il parroco, rischiano di diventare gli “amministratori” di tanti “appartamenti ad impianti autonomi”».

Una casa, dicevamo dell’Auditorium, laica, aperta alla società civile e immersa in essa, in navigazione sulle sue onde a volte burrascose, come la barca di Pietro che è stata, con raffinata scelta, presa a simbolo dell’avvenimento.

Il vescovo Gualtiero ha salutato gli intervenuti e brevemente introdotto i lavori con uno dei suoi preziosi medaglioni sulla speranza. Citando una frase di Benedetto XVI, «Sperare è un verbo che si coniuga solo al plurale», e completandola con un suo «e soltanto al presente».

Dopo i Vespri, cantati in modo inaspettatamente impeccabile, date le inusuali dimensioni del coro, la parola è passata a Enzo Bianchi, cui il vescovo Gualtiero aveva affidato una domanda basilare e provocatoria: «Chi è la Chiesa?».

Nella conversazione proposta dal priore della Comunità di Bose, il tema generale ha trovato ampio arricchimento e chiarificazione. Cerchiamo di farne una sintesi.

Quel «chi», del quale Enzo Bianchi rileva la precisione linguistica, presuppone che la Chiesa sia creatura, dotata di personalità, soggetto attivo: una «mistica persona». Il Nuovo Testamento ci dice molte volte di questa realtà «nata dalla predicazione di Gesù e dal suo ministero svolto sulle strade».

Certo, per capire «chi» fosse la Chiesa è occorso del tempo e la riflessione di molte generazioni. Sentita inizialmente – sono parole di Gesù stesso – come «ovile», «piccolo gregge», verrà poi chiamata «Fraternità», poi «Chiesa» – termine usato anche nel Vecchio Testamento – e «popolo di Dio». Al termine dell’epoca apostolica sarà «Corpo di Cristo» e «Sposa di Cristo». Si trattò evidentemente di un «crescendo nella comprensione del mistero da parte dei cristiani», che culmina nella meditazione del mistero della Sposa: «Vieni, vieni, Signore Gesù».

Con il termine Chiesa, non viene più evocato il suo profondo significato di «creatura Verbi», cioè della sua generazione a partire dalla Parola. Il rapporto Chiesa/parola di Dio non viene più percepito, la sua realtà è sminuita ed essa stessa non gode più di ascolto, Gesù resta come termine che gode di rispetto, ma viene dissociato dai concetti di Dio e Chiesa.

Ecclesìa è il raduno dei convocati, dei chiamati (eccletòi).

Dio chiama e raccoglie coloro che ascoltano la sua parola. Fin dalla convocazione al Sinai da parte di Mosè, il popolo diventa assemblea, il cui stesso termine – in ebraico – ha la stessa radice di “voce”. È vero, però, che quando pensiamo ad “assemblea” noi pensiamo ad una cosa che si forma dal basso. Meglio dire “ecclesia”, che è un raduno non autoconvocato, ma destato dalla parola di Dio, come in Es 19,3-6, e diventa proprietà e popolo di Dio.

Ed è un popolo evangelizzato ed evangelizzante, una Chiesa della quale ricorrono nella Scrittura molte epifanie già nell’Antico Testamento: al Sinai; a Sikem, entrando con Giosuè nella Terra promessa; al tempio di Gerusalemme; al ritorno dall’esilio. Ogni volta è Dio che chiama e subito dopo dona la sua parola, concludendo poi un’alleanza suggellata dal sacrificio.

Venuta la «pienezza dei tempi», la Parola fatta carne ha radunato una comunità alla quale, per anni, ha donato la Parola, concludendo con il sacrificio del proprio sangue, per realizzare «la nuova (ultima e definitiva) alleanza, che Dio non può smentire, perché fatta nel sangue del suo figlio».

Per venire alla nostra vita, al suo tessuto quotidiano, nel quale il cristianesimo aderisce alla vita dei credenti: ogni domenica il Signore convoca l’Assemblea, che ha in dono la sua parola e – nel memoriale –  diventa partecipe del sacrificio della Nuova Alleanza (nell’ultima cena, in effetti, Gesù ha aggiunto solo questo aggettivo «nuova» alle parole di Mosè). «Anche nella più piccola e umile eucaristia tutto questo si rinnova e nasce la Chiesa di Dio», che è una realtà «personale che nasce soprattutto dalla Parola e dall’eucaristia, nel Giorno del Signore». La Parola proclamata – ha aggiunto Enzo Bianchi – fatta risuonare anche nell’omelia, fa crescere nell’amore e conforma il cristiano a Gesù, perché possa vivere la stessa vita di Gesù». Molti, tra l’altro, hanno nella liturgia domenicale l’unica occasione di incontrare la Parola.

Riprendendo il concetto della Chiesa evangelizzata ed evangelizzante, il priore di Bose ha precisato che «una Chiesa non evangelizzata è tutt’al più propaganda e discepolismo dei militanti» e se non vi è ascolto della Parola, dello Spirito, «si hanno derive di carismatismo», perché è lo Spirito che rende evangelizzante tutta la Chiesa.

«Non occorrono nuove iniziative – dice Enzo Bianchi – ma l’animazione dell’intera pastorale con la parola di Dio e nessun cristiano può sentirsi estraneo a questa responsabilità: «la coerenza con la parola di Dio ascoltata e accolta è testimonianza in una società indifferente, nella quale occorre far emergere la differenza cristiana».

Occorrerà pensare al come evangelizzare e, secondo il relatore, emergono tre emergenze. Come dirà anche la prossima Lettera pastorale del vescovo Gualtiero, perché la Chiesa possa essere evangelizzante, cioè capace di testimonianza, occorre che prima ascolti la Parola. Lo stile dell’evan–gelizzazione, poi, deve essere lo stile di Gesù: povero, mite, non militante, rispettoso dei destinatari, dei peccatori per i quali Gesù è venuto. Occorre, infine «l’annuncio del Gesù che ha narrato Dio con vita umana e parole umane»: è necessario far conoscere Gesù come cammino di vera umanizzazione. «È venuto il tempo di dire con forza che Gesù è l’Uomo (“Ecce Homo”).

Enzo Bianchi ha ricordato che nella sua giovinezza «si cresceva sulle ginocchia della Chiesa» attraverso la mamma, il catechismo, la parrocchia; oggi, invece, occorre riconoscere e accogliere quelli che, come i greci che si accostarono a Filippo, chiedono «Vogliamo vedere Gesù».

La giornata si è conclusa, dopo la cena condivisa, con un breve dibattito e il saluto del vescovo, che ha così presentato anche la sua Lettera pastorale «Su questa pietra… (Mt 16,18). Il vescovo Gualtiero ha detto di averla pensata come strumento di lavoro per la visita pastorale, rileggendo la Lumen gentium. Paragonando la Chiesa ad una tela dipinta, inondata di luce che rende difficile percepire i colori e le sfumature, il vescovo ha detto che «come ogni tela la Chiesa ha una trama e un ordito: l’ordito è del Signore e si chiama unità, la trama è nostra e porta il nome di fraternità!». «Prima dell’ordinazione episcopale – ha confessato il vescovo – ho sempre guardato la Chiesa con l’occhio del figlio […]. Adesso, da vescovo, ho scoperto nella Chiesa la Sposa» e quando si «ammira il volto della sposa le rughe si notano, si osservano e si contano!» e rileva queste rughe nell’impressione che la diocesi sia «un “formicaio frenetico”» più che un «alveare laborioso»; un «condominio di parrocchie» più che una «casa-famiglia»; un’«officina pastorale che si limita a garantire alcuni servizi di manutenzione» più che una «fucina missionaria»; un «recinto […] al riparo dalla sfida di aprire il cantiere dell’Atrio dei Gentili» più che un «ovile»; un «cortile» di silenzio e letargo più che un «chiostro dove risuona la parola di Dio».

Tuttavia – afferma il vescovo – «Vorrei che fosse a tutti chiaro che la nostra Diocesi è davvero splendida ai miei occhi!» ed invita i fedeli a non abbattersi, ma a «camminare in cordata», senza temere, ricordando – con le parole di una preghiera a Maria di Tonino Bello –, però, che «mandata da Dio per la salvezza del mondo, la Chiesa è fatta per camminare, non per sistemarsi» e chiedendo alla Madre di Dio: «Non impedire che il clamore dei poveri ci tolga la quiete […]. Ispiraci l’audacia dei profeti […]. E liberaci dalla rassegnazione».

Massimo Bernabei