Come avrà vissuto Maria i giorni della passione? Quest’anno noi fratelli di Nazaret abbiamo scelto di vivere la settimana più importante di tutto l’anno liturgico nella città di Gesù.

Alla sera del primo giorno del triduo pasquale, durante l’adorazione eucaristica nella basilica dell’annunciazione, mi è nata una domanda: che relazione esiste tra i fatti della passione, della croce e della risurrezione con questa grotta, in cui Maria ha vissuto la sua giovinezza ed ha ascoltato l’annuncio dell’angelo e con la città in cui Gesù è cresciuto? Quanto Gesù, durante l’ultima cena, l’agonia al Getzemani, il processo, la notte in prigione, il cammino della via crucis, avrà ripensato alla sua vita passata, agli affetti della sua famiglia, alla quotidianità nella casa di Nazaret? E quanto quella quotidianità, quella vita semplice è stata determinante nel procedere con decisione nel suo cammino “fino alla morte di croce”?

Domande che non possono trovare risposta, direte, perché nessuno può ritenersi in grado di leggere nella mente e nel silenzio di Gesù in quei drammatici momenti. Ma se pensiamo, come è ovvio, che la sua vita è stata un percorso evolutivo unitario, dove l’umanità e la divinità mirabilmente si sono fuse insieme in un’unica persona, e dove ogni tappa evolutiva, umana e spirituale, comprende e trasfigura ogni tappa precedente, non possiamo non pensare che quello che ha vissuto negli ultimi giorni della sua vita siano sati determinati da tutto ciò che c’è stato prima. Per questo possiamo dire con certezza che il legame tra la grotta e il calvario con il sepolcro vuoto, c’è ed è consistente.

Il coraggio nell’affrontare i problemi, la responsabilità della propria missione, la coerenza vissuta con maturità, l’attitudine a rispondere da uomo a chi gli domandava ragione del suo comportamento, la prontezza nel rispondere, la straordinaria capacità di comprendere quando era il momento di parlare e quando di tacere. Tutto questo e molto altro ancora presentano un filo molto robusto che lo tiene legato a quella grotta, alla sua città. Se rileggiamo infatti gli avvenimenti che hanno riguardato la sua famiglia all’inizio della sua storia, non ritroviamo forse le stesse virtù umane che riscontriamo negli atteggiamenti del “giusto sofferente” e del “crocifisso risuscitato”?

Spostandoci su un piano teologico e spirituale, non è forse vero che la progressiva comprensione della sua missione, il coraggio di assumerla, l’abbandono nelle mani del Padre, …, hanno le loro radici e il loro esempio nella stessa vicenda vocazionale di Maria e Giuseppe? La “culla” dunque della passione e morte in croce e quindi della risurrezione, si colloca nella grotta dell’annunciazione, nella città di Nazaret di Galilea e nelle radici familiari e culturali del Salvatore.

A partire da quanto detto e tornando alla domanda iniziale “come, Maria, avrà potuto vivere quei giorni drammatici?” non posso fare a meno di pensare al testo di una canzone, nella quale si pongono sulle labbra di Maria queste parole:

“Piango di lui ciò che mi è tolto, le braccia magre, la fronte, il volto, ogni sua vita che vive ancora, che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore, e chi ti chiama Nostro Signore, nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di Paradiso.
Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”.
(F. de Andrè, Tre Madri.)

Se è vero quanto abbiamo detto, non possiamo leggere questo testo come una mancanza di fede di Maria. Del resto le parole, questa volta esplicitamente evangeliche, di Gesù sulla croce, ci confermano che la sensazione dell’abbandono da parte di Dio, l’umanità che fatica a cogliere il senso di quanto si vive, sentire di aver perso tutto, rappresentano anch’esse un’autentica esperienza spirituale.

Mi sembrava questa riflessione un utile modo per affrontare il venerdì e il sabato santo, per aprirsi con verità alla luce del mattino di pasqua.

fratel Marco