Non è una cosa di tutti i giorni incontrarsi come Religiosi in Terra Santa. A differenza delle Religiose che da anni si ritrovano regolarmente tutti i mesi, per noi uomini non è altrettanto facile o scontato.

Vi raccontiamo qualche cosa di questo evento un po’ eccezionale, avvenuto sabato scorso a Kiryat Yearim (santuario della Foederis Arca, nei dintorni della Città Santa), per comunicarvi alcune notizie interessanti sulla Terra Santa e sulla diocesi di Gerusalemme.

Come forse non tutti sapranno la diocesi comprende: Israele, Palestina, Giordania e Cipro. La sola notevole estensione, unitamente alla complessità delle diverse situazioni, fa capire la particolarità della diocesi stessa e la presenza di notevoli problemi all’interno di essa.

Il Vescovo Pierbattista ha parlato a lungo di Gerusalemme, prendendola ad esempio per descrivere le difficoltà presenti nella nostra Chiesa locale.

Sono molti a non avere una idea chiara di Gerusalemme, non solo da un punto di vista sociale e politico, ma anche nella prospettiva religiosa e teologica. La Gerusalemme terrestre non deve suscitare soltanto un legame “affettivo”. Esiste un legame profondo tra la vita cristiana e Gerusalemme. Essa è la città che, secondo il profeta Ezechiele, deve chiamarsi «là è il Signore». Ed è la stessa città della quale Gesù sembra sminuire il significato: «né qui, né a Gerusalemme si deve adorare il Padre… ma in spirito e verità».

Presso l’Islam e, ovviamente, l’Ebraismo troviamo un legame molto vivo con Gerusalemme. Per i Cristiani è un po’ diverso in quanto non esiste l’obbligo del pellegrinaggio alla Città Santa. Tuttavia rimane questo legame importante e profondo. Perché è così importante?

A Gerusalemme sono rimasti circa ottomila cristiani (a fronte dei circa 882.700 abitanti), numero che comprende tutte le Chiese e le diverse Confessioni cristiane. Nonostante l’esiguo numero abbiamo il dovere di parlare dell’apporto dei cristiani alla vita e alla comprensione del significato di questa città.

Il Cristianesimo è incarnazione, quell’evento che rappresenta il culmine della storia salvifica, da Abramo in poi. L’incarnazione ha bisogno di una sua geografia, di un luogo che si possa vedere e toccare, affinché possa essere autentica: «Gesù è risorto! Venite qui a vedere il luogo dove era sepolto». Senza tale concretezza si perde la storia. Toccare il luogo dà senso alla mia vita di oggi come cristiano.

Alla base di questa incarnazione c’è il desiderio di riconciliazione tra Dio e uomo e di unità di tutto il genere umano. Gerusalemme dunque diventa il simbolo di tale riconciliazione e di tale unità. Gerusalemme non è solo un museo ma crocevia di persone, culture e lingue.

Gerusalemme è inoltre la Chiesa madre:

è la prima: ha generato tutte le altre. Non è “apostolica” nel senso che qui l’origine non è un apostolo particolare ma il Cristo stesso. È madre inoltre perché è locale ma al tempo stesso è universale nella sua costituzione iniziale: «Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio» (At 2,9-11). Nell’evento della nascita della Chiesa a Pentecoste troviamo la risposta a Genesi 11, il famoso capitolo nel quale l’uomo si cimenta nell’edificazione della torre di Babele con la conseguente confusione delle lingue. Negli Atti, in quel momento fondativo, la Chiesa era locale e universale. Nel suo nascere c’era già tutta la Chiesa. Rimane un richiamo fondamentale all’unità iniziale e sostanziale e in essa c’è il modello completo della Chiesa.

Tale universalità si riscontra non solo nella internazionalità tuttora presente, ma pure nell’universalità dei carismi che in essa si ritrovano. Essa esprime la stessa universalità dello Spirito che riunisce tutti a Gerusalemme.

Andando più nel concreto, la Chiesa di Gerusalemme è formata da una Chiesa autoctona di lingua araba, radicata qui da sempre. Ma i cristiani non sono un popolo che vive separatamente nel seno di altri popoli, ma ne fanno parte attivamente. Essi sono Palestinesi se vivono in Palestina, Israeliani se vivono in Israele, Giordani se vivono in Giordania…  In questo senso si corre addirittura il rischio di avere una visione di Chiesa troppo dipendente dal popolo di cui si fa parte, mentre risulta necessario avere uno sguardo autonomo che mira a preservare il carattere cristiano di Gerusalemme. In essa, ebrei, musulmani e cristiani devono sentirsi a casa propria. Ciò significa che tutti devono avere la possibilità di pregare pubblicamente, di sostenere le proprie istituzioni, di sostenere il naturale sviluppo demografico della città (in questo senso i cristiani sono i meno tutelati), preservare il legame tra i cristiani di Gerusalemme e quelli di tutta la Terra Santa (Palestina compresa…).

La presenza dei religiosi rientra invece in quella parte di Chiesa non autoctona e che costituisce comunque un elemento molto importante di essa. Ha due caratteristiche: ci sono religiosi a servizio della Chiesa locale ed altri a servizio di quella universale. In questo senso si possono incontrare accuse verso i religiosi per il loro non sufficiente inserimento nella Chiesa locale (mancanza della lingua, ecc.) e d’altra parte si può anche evidenziare una non sufficiente accoglienza da parte di essa. È necessario che la diocesi si verifichi sempre su tutti e due gli aspetti.

I preti diocesani sono ad oggi 104 a fronte di oltre 600 religiosi presenti. Facendo una battuta si potrebbe dire che i religiosi sono “sale e lievito”, ma sappiamo bene che troppo sale rende il cibo immangiabile… A tal proposito è necessario dunque stare a Gerusalemme in un certo modo:

  • liberandosi da ogni precomprensione. Ci vuole umiltà, mettendosi in ascolto dei suoi migliaia di anni di storia. Gerusalemme non è generosa con chi ha fretta, mentre ha molto da insegnare a chi ha pazienza.
  • Non si viene qui per prestigio e non si viene qui per servirsi di Gerusalemme, ma per servirla.
  • Ci sono problemi politici di fronte ai quali è necessario non affrettarsi a giudicare. Il perdono, la misericordia, la giustizia, la pace sono i valori che noi cristiani dobbiamo instancabilmente perseguire. Qui, amare i nemici, diventa molto concreto. In questo senso il ruolo dei religiosi è quello di accompagnare al perdono, alla misericordia e alla pace. Gerusalemme è una città che sogna la pace, ma che non la vuole.
  • Aiutare a non dividere è un’altro principio essenziale. Stare a Gerusalemme significa pregare e la preghiera cristiana non può dividere. In fin dei conti le diverse opere che possiamo avere non aggiungono o tolgono nulla a Gerusalemme, non cambiano la sua sostanza, mentre la preghiera autentica si radica al cuore della sua essenza. Nella preghiera possiamo affidare anche quello che non comprendiamo.
  • Inserirsi pienamente. Spesso si vive come se si fosse ancora nel proprio paese di origine. Si tratta di un peccato originale dal quale liberarsi prontamente.
  • Evitare di contribuire alla mentalità dei ghetti così fortemente radicata in questa città. Il religioso non può venire qui per vivere in un ghetto o per formarne di nuovi.
  • Abbandonare l’idea di sapere e di comprendere tutto fino in fondo. Talvolta se si ha studiato qualcosa inerente alla Terra Santa (lingua, storia e geografia biblica, esegesi, ecc.) si ha la pretesa di aver compreso tutto.
  • Contribuire a comprendere, studiare e ad alimentare l’ecumenismo come dato pastorale e non solo come aspetto teologico. Il religioso è colui che unisce e smussa gli angoli. È parte dell’Istituzione che apre, che crea ponti.
  • Farsi portavoce della vita di qui presso le congregazioni. Diventare così canale di comunicazione.

In tutto questo siamo invitati a richiamare non solo al pellegrinaggio verso Gerusalemme, ma pure a quel legame con essa che rende palpabile l’incarnazione.

Ci è sembrato interessante condividere questi appunti con tutti… Sperando che il legame di cui parlava il vescovo Pizzaballa possa sempre più rinforzarsi e approfondirsi in tutta la Chiesa.

fratel Marco jc