Portiamo ancora negli occhi e nel cuore l’esperienza dello scorso fine settimana nel deserto del Neghev. Un lungo cammino (in macchina…) verso un luogo allo stesso tempo desolato ed affascinante. Luogo che ha visto il peregrinare del popolo di Israele nei suoi quarant’anni prima di entrare nella Terra Promessa. Luogo ricco di storia e di culture nello scambio tra i popoli in quella che era una delle vie principali di comunicazione tra l’oriente ed il mar Mediterraneo.



Così abbiamo iniziato il nostro viaggio-pellegrinaggio, guidati dalla Scrittura e accompagnati dall’eloquente esperienza del popolo di Dio negli anni del fidanzamento con il loro Signore. Ovviamente è stata pure l’occasione per approfondire la prospettiva del nostro fratel Charles che del deserto ha fatto la sua dimora per molti anni della sua vita.

Il nostro percorso è iniziato con la lettura di Osea 2, quel capitolo stupendo nel quale il Dio innamorato della sua sposa infedele, il popolo, la invita a recarsi nel deserto per «parlarle sul cuore» e farle abbandonare tutti i suoi amanti.

E il deserto è stato lo scenario che abbiamo avuto davanti agli occhi in tutti e due i giorni del nostro cammino: prima la valle del Giordano, quindi il deserto di Giuda, per addentrarci poi e dimorare in quello del Neghev.

Tappe d’obbligo sono state la discesa a toccare le acque del mar Morto e la salita a Masada, la sommità di una montagna nella quale si conserva la memoria di migliaia di anni di storia, con la presenza di giudei, romani, bizantini, ecc. Un luogo davvero spettacolare, sia per i panorami che si possono ammirare, che per la storia che racchiude e per la preziosità del sito archeologico.

Lasciandoci alle spalle le fabbriche di prodotti cosmetici, quelle per la lavorazione del sale ed anche gli stabilimenti per la cura delle malattie della pelle, ci siamo addentrati finalmente nel Neghev, un deserto dalle molte facce: quella rocciosa di monti squadrati, quella delle dune pietrose corredate da sterpaglie disseminate qua e là e quella della sabbia rossastra, prevalentemente nella zona di Beer Sheva.

Durante la discesa abbiamo avuto l’opportunità di una sosta di circa 45 minuti in un wadi, per assaporare il gusto del silenzio del deserto e fermarci un po’ in preghiera e meditazione. Il punto di arrivo è stato Mizpe Rammon, una cittadina israeliana che si affaccia su Rammon, un immenso cratere di un vulcano spento che rappresenta probabilmente uno degli scenari più affascinanti e mozzafiato dell’intero paese. Pareti rocciose che si estendono per chilometri e chilometri a disegnare una depressione profonda e ricca di colori determinati dalle differenti stratificazioni laviche, e sullo sfondo colline desertiche che si inseguono senza fine. Un invito allo stupore e alla meraviglia per le bellezze del creato.

La mattina della domenica il momento più intenso è stato senza dubbio la celebrazione della Messa in pieno deserto, con una roccia a fare da altare, con la voce del «Pastore» a guidare i nostri passi (il Vangelo era proprio il capitolo 10 di Giovanni: il Pastore bello) e la nostra preghiera, e il suo Corpo a significare la nuova manna che Dio ha donato all’uomo nuovo, come cibo per la vita eterna.

Il viaggio di ritorno è proseguito con la visita ad Avdat, la città nabatea a pochi chilometri da Mizpe Rammon e con la visita al Tel Sheva, nel quale si conservano i resti di antichi insediamenti umani e particolarmente giudaici. Beer Sheva («Bersabea») rappresenta infatti l’estremo sud della porzione di terra che Dio ha promesso al popolo di Israele.

Chiudiamo il nostro racconto con l’immagine di un uomo, un ebreo etiope, uomo delle pulizie nel sito archeologico di Advat, che cantava a voce alta un passo della Bibbia. Gli chiediamo che cosa sia. Ci risponde che si tratta di un passo dei salmi da lui stesso musicato. Gli chiediamo la traduzione: «Il Signore è il mio pastore…».

fratel Marco