La festa di fr. Charles ha mosso in me una serie di riflessioni che da tempo mi portavo dentro. L’uomo di mondo che si lascia conquistare dal Vangelo e da Gesù Cristo e che “dal primo momento che ha capito che esisteva un Dio”, non ha potuto fare a meno “di vivere per lui”, perché “c’è così tanta differenza tra ciò che è Dio e ciò che non è Dio”, mi costringe di tanto in tanto a fare il punto della situazione su ciò che è più autentico.

Leggendo qualunque biografia del Beato de Foucauld si avverte, io credo, un profondo bisogno/desiderio di Vangelo, vissuto in profondità, nella sua portata più totalizzante, totalmente concentrati nell’unica cosa che conta per un cristiano: Gesù e la sua Buona notizia.

E qui ha inizio la mia condivisione sul senso di disagio che al contrario si avverte accostando il mondo ecclesiale di questo momento. Da tempo si dice che “non ci sono più profeti”, che è difficile incrociare sulla propria strada persone che siano in grado di offrire orizzonti carichi di speranza, di novità liberante, di misericordia, di fraternità e di pace. Stando un po’ in disparte, in questa terra singolare in cui il Verbo ha preso la sua dimora, si avverte che, se c’è un sentimento dominante e generalizzato, questo è piuttosto  un forte senso di nostalgia della chiesa. Quella chiesa che dal quarto secolo in poi ha costantemente corso il rischio e molto spesso percorso la strada di un rapporto tanto stretto con il “potere”, con l’apparenza, da diventare soffocante e sempre compromettente. A discapito proprio del Vangelo.

Ho incontrato diverse spiegazioni alle decisioni prese sulla liturgia, sullo stile che si sta diffondendo nelle diocesi, sulla proposta di una pastorale ingessata e fondata su quei valori che con un’insistenza a volte fastidiosa vengono proposti con il dubbio che gli altri valori non promossi (o annunciati sottovoce) siano il prezzo da pagare per avere determinate rassicuranti garanzie; ma nessuna mi convince, perché a mio parere ci stiamo allontanando dall’unica fonte che può rendere viva la nostra esistenza personale ed ecclesiale: il Vangelo.

Leggevo in questi giorni dello sforzo che da anni è in atto per riallacciare i rapporti con il mondo “separato” delle comunità nate dallo scisma post Concilio Vaticano II, le comunità di mons. Lefebvre. Come cristiano, che cerca di mantenere la sua libertà di pensiero, sempre inserito in un’esperienza vera di Chiesa, mi domando se almeno gli stessi sforzi sono fatti verso tutto un mondo, ben più ampio e povero, di persone che vivono nell’indigenza o verso il mondo “separato” di chi è stato costretto a fare scelte morali tradizionalmente giudicate autoescludenti. Perché, mi domando, non si avverte almeno lo stesso livello di impegno e di voglia di accostare problemi scottanti, ma tanto vicini alla vita delle persone?

Un capitolo a parte merita poi la proposta della figura del prete che in questi anni si va facendo. Ho in mente l’intervista ad alcuni seminaristi dopo la giornata mondiale della gioventù a Madrid. Persone che definivano commuovente la vista di migliaia di ragazzi che, come loro, condividevano la stessa vocazione, e che soprattutto condividevano lo stesso vestito: l’abito talare. Avendo partecipato a diversi di questi incontri, mi sono detto, se migliaia di seminaristi erano vestiti così, si prospettavano due possibilità: o avevano fatto l’intero pellegrinaggio al luogo della Messa con il Papa in talare (in pieno agosto!), oppure se l’erano caricata nello zaino per tutto quel tragitto. In entrambi i casi un gesto simbolico che a mio avviso è di notevole significato, perché esprime quanto si è disposti a fare per mostrare la propria appartenenza ad uno “status” rassicurante, vorrei dire ad una casta.

Non sono nessuno per dare indicazioni, risposte, oppure per criticare, ma, ancora come cristiano, mi pongo delle domande e mi piace dirle ad alta voce.

Un’esperienza illuminante del mio passato recente è stata la lettura del libro di Helder Camara, Roma, due del mattino. Lettere dal Concilio Vaticano II, Cinisello Balsamo, San Paolo, c1998. In esso, il cardinale racconta le sessioni del Concilio Vaticano II attraverso un suo diario personale. Un racconto appassionato, lucido, intenso, che riesce a far riecheggiare nei cuori lo spirito del Concilio, l’entusiasmo per una novità nascente e promettente per l’intera Chiesa. Entusiasmo condiviso non solo da qualcuno, ma da un’assemblea di Vescovi e di laici che di volta in volta risultava più numerosa e determinata. Se è vero che il Concilio può aver portato a delle “derive”, è pur vero che questo spirito, a mio avviso suscitato dallo Spirito Santo, non può essere soppresso a motivo di queste deviazioni. E la risposta ad esse non può essere trovata nella restaurazione del pre-concilio, ma ritornarndo ad esso per riscoprirne proprio quello spirito che ha appassionato e mosso il cuore degli stessi padri conciliari.

E la mia condivisione vorrebbe andare molto oltre, ma mi fermo qui, perché non è forse il luogo più adatto, e per non annoiare quanti sono arrivati a leggere fino a qui. Siamo dentro questa Chiesa e nessuno se ne vuole tirare fuori, ma rimane il desiderio di poter parlare, esprimersi, raccontare, proporre insieme un volto di comunità cristiana capace di accoglienza, di perdono, di amicizia, di simpatia, di proposte di vita dal sapore buono e fresco. Una Chiesa che, forse, fr. Charles aveva intuito ed iniziato a vivere.

fratel Marco